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Monti entrò nell’ufficio di Elena con passo veloce, un fascicolo in mano e l’espressione di chi sa di avere tra le dita qualcosa di grosso.
«L’ho trovata», disse, senza preamboli.
Elena alzò lo sguardo dal monitor. «La macchina?»
«Sì. Una coupé sportiva, modello recente, fanali posteriori tondi come ha detto il testimone. Ma non è intestata a un privato.»
«A chi allora?»
Monti aprì la cartella e gliela porse.
«Alla Europacciaio S.p.A.»
Elena aggrottò la fronte. «La multinazionale dell’acciaio?»
«Esatto. La società del magnate Giorgio Armatis. Uno degli uomini più ricchi e influenti del paese. Cantieri, appalti pubblici, fondazioni culturali... il suo nome è ovunque.»
Elena sfogliò le carte. «E l’auto?»
«L’auto è registrata come mezzo aziendale, ma risulta in uso al figlio: Tommaso Armatis.»
Un silenzio si allungò nella stanza.
«Tommaso Armatis...» ripeté Elena, assaporando il nome. «Che tipo è?»
Monti sospirò. «Ufficialmente, un imprenditore rampante. In realtà, uno che vive all’ombra del padre. Feste, auto di lusso, serate esclusive, compagnie discutibili. Mai un’accusa, mai una condanna. Troppo denaro, troppi avvocati.»
Elena si alzò, infilò il cappotto. «Vado a parlargli.»
Monti la guardò perplesso. «Buona fortuna. Arrivare a Giorgio Armatis non è facile, figurati al figlio. Il loro mondo è blindato.»
«Tutti i mondi hanno una porta, Monti. Bisogna solo trovare la maniglia giusta.»
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La villa degli Armatis dominava la collina a nord del paese, una distesa di vetro e pietra che si specchiava nel lago sottostante.
Il cancello si aprì dopo un lungo controllo all’ingresso. Una guardia in divisa la accompagnò fino alla scalinata principale, ma quando chiese di parlare con il signor Armatis, le venne risposto con un sorriso freddo:
«Il signor Armatis non riceve senza appuntamento. È molto impegnato.»
«Capisco», rispose Elena, mantenendo il tono calmo. «E il figlio? Tommaso Armatis?»
L’uomo esitò.
«Il signor Tommaso non si trova in casa in questo momento. Ma posso prendere nota della sua richiesta.»
Elena lo fissò negli occhi, poi annuì.
«Va bene. Ma se lo vede, gli dica che il commissario Ferri desidera parlargli in merito a un’indagine per omicidio. Non credo vorrà che la polizia torni con un mandato.»
Il tono, misurato ma fermo, fece vacillare la sicurezza del portinaio.
«Ho capito, lo riferirò subito, commissario.»
Elena tornò alla macchina, il vento le sollevava i capelli.
Guardò la villa nello specchietto retrovisore: il riflesso del sole colpiva i vetri come un lampo tagliente.
Sapeva che quello era solo l’inizio, ma sentiva che il nome Armatis sarebbe tornato spesso, da ora in avanti — e non solo per la macchina.
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Quando tornò in commissariato, trovò Monti ad aspettarla.
«Allora?» chiese lui.
«Armatis è intoccabile… ma il figlio no. Voglio sapere tutto su Tommaso Armatis: dove vive, con chi esce, cosa fa, e soprattutto dove si trovava la notte in cui Irina è stata uccisa.»
Monti annuì. «Ci penso io.»
Elena aggiunse, quasi tra sé:
«Se la vittima era incinta… voglio sapere chi era il padre del bambino.»
Il mattino successivo, quando Elena arrivò al commissariato, Monti le venne incontro con passo rapido.
«C’è qualcuno che vuole parlarti», disse.
«Chi?»
«Tommaso Armatis.»
Elena si fermò un istante, sorpresa. «È venuto lui?»
Monti annuì. «Sì. Da solo. Dice che vuole chiarire la sua posizione.»
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Tommaso Armatis era seduto nella sala interrogatori, le mani intrecciate, lo sguardo basso.
Non aveva l’aria del ragazzo viziato che Elena si era immaginata.
Era pallido, gli occhi arrossati, le spalle curve come se portasse un peso troppo grande. Quando lei entrò, si alzò in piedi di scatto.
«Commissario Ferri… grazie per avermi ricevuto. So perché sono qui. So cosa pensate di me.»
Elena si sedette di fronte a lui, calma ma attenta. «In realtà, signor Armatis, non penso ancora nulla. Sto solo cercando di capire la verità.»
Tommaso annuì lentamente, le lacrime trattenute a fatica.
«Io e Irina… ci amavamo.»
La voce gli tremava. «Non era solo una storia. Lei… lei era diversa. Mi aveva fatto capire cosa significa vivere davvero. Volevamo scappare via, lontano da tutto questo. Dal mio cognome, dal suo passato.»
Si fermò, il respiro pesante.
«Lei voleva uscire dal giro, commissario. Diceva che non ne poteva più, che non voleva crescere un figlio in quell’inferno. Io la stavo aiutando. Avevamo un piano. Un posto dove andare.»
Elena lo osservava, studiando ogni gesto. «E il bambino era suo?»
Tommaso chiuse gli occhi, un singhiozzo gli sfuggì dalle labbra.
«Sì. Era mio. Lo so. Lo sentivo.»
Si passò una mano tra i capelli, disperato.
«L’ho persa… ho perso tutto. L’amore, mio figlio. Non riesco nemmeno a respirare da quando me l’avete detto.»
Elena rimase in silenzio, lasciandolo sfogare. Poi chiese con voce bassa:
«Quando l’ha vista l’ultima volta?»
«Il giorno prima che… che la trovassero. Era felice, stranamente felice.
Mi ha detto che presto avrebbe avuto dei soldi, abbastanza per cominciare una nuova vita.
“Ce la faremo, Tommy”, mi ha detto. “Io, tu e il bambino.”»
Elena inclinò la testa. «Ha detto da dove sarebbero arrivati quei soldi?»
Tommaso esitò. «No. Le ho chiesto, ma ha solo sorriso.
Ha detto che non voleva mettermi in mezzo, che era una cosa sua, ma che presto sarebbe finito tutto. Poi… l’ho salutata. Non l’ho più rivista.»
Monti, appoggiato allo stipite della porta, incrociò lo sguardo di Elena. Entrambi sapevano cosa quella frase significava: Irina stava per fare qualcosa di importante, forse pericoloso.
Elena richiuse il taccuino. «Tommaso, da questo momento la prego di non lasciare il paese. Potremmo aver bisogno di parlare ancora con lei.»
Lui annuì, le mani tremanti. «Farò tutto quello che vuole, commissario. Ma la prego… la trovi. Trovi chi le ha fatto questo. Non per me. Per lei.»
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Quando uscì dalla stanza, Elena rimase un momento ferma nel corridoio.
Monti la raggiunse. «Che ne pensi?»
«Penso che Tommaso non menta sul dolore», rispose lei. «Ma non mi torna la storia dei soldi. Chi glieli doveva dare? E perché proprio adesso?»
Monti la fissò serio. «E se quei soldi avessero a che fare con qualcuno del passato?»
Elena chiuse gli occhi un attimo. Le immagini di Anna, Irina, e il lago si sovrapposero nella sua mente.
«Forse», sussurrò. «O forse il passato non è mai davvero passato. È solo in attesa che qualcuno lo riporti a galla.»
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Il commissariato era immerso in un silenzio teso.
Fuori, la pioggia cadeva fitta contro le finestre, disegnando scie lucenti sul vetro.
Elena e Monti sedevano uno di fronte all’altra, i fascicoli aperti sul tavolo.
Le foto di Irina e quelle di Anna giacevano una accanto all’altra: due volti diversi, due epoche lontane, ma lo stesso lago sullo sfondo.
Elena fissò le immagini a lungo, poi disse a bassa voce:
«Monti… per risolvere questo delitto dobbiamo tornare indietro.
Capire davvero cosa accadde trent’anni fa.»
Monti sollevò lo sguardo. «Pensi che i due casi siano collegati?»
«Non lo penso,» rispose Elena, «ne sono convinta.
Irina è morta nello stesso modo, nello stesso punto. È impossibile che sia solo una coincidenza.
Qualcuno sta ripetendo quella storia, oppure sta cercando di completarla.»
Monti inspirò lentamente, le dita che tamburellavano sul tavolo.
«Cosa vuoi che faccia?»
Elena si alzò, si avvicinò alla finestra. La pioggia le rifletteva sul viso la luce dei lampioni.
«Voglio che tu scavi nel passato di Anna. Voglio sapere dove è stata per quell’anno in cui è sparita e che cosa le è capitato di così… meraviglioso come disse ad Andrea la sera della sua morte.»
Monti annuì. «Posso provare a contattare la zia da cui dicevano fosse andata. Magari qualcuno sa qualcosa.»
«Bene,» disse Elena voltandosi verso di lui. «Ma fallo con discrezione. Se davvero Anna aveva un segreto, qualcuno potrebbe volerlo ancora nascondere.»
Monti la guardò con un’espressione che mescolava fiducia e preoccupazione.
«E tu?»
Elena tornò al tavolo, raccolse i fascicoli di Irina e li strinse al petto.
«Io voglio capire da dove dovevano arrivare quei soldi.
Tommaso ha detto che Irina sembrava sicura, come se avesse in mano la soluzione a tutti i suoi problemi.
Voglio sapere chi le aveva promesso quella somma e perché.
Forse lì troveremo il movente. Forse lì troveremo l’assassino.»
Un tuono rimbombò lontano, sopra il lago.
Monti si alzò, indossando la giacca. «Sembra che il temporale ci accompagnerà per un po’.»
Elena sorrise appena. «Il tempo cambia, Monti. Ma il passato… quello non passa mai davvero.»
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Quando Monti uscì nel buio con il rumore della pioggia nei passi, Elena restò sola nell’ufficio.
Accese la lampada, riaprì il fascicolo di Anna.
Nella foto del ritrovamento, il corpo della ragazza giaceva sullo stesso tipo di sabbia, la stessa riva dove ora riposava Irina.
Due donne, due epoche, una stessa mano invisibile.
Elena si passò una mano tra i capelli e sussurrò tra sé:
«Trent’anni… ma qualcuno non ha mai smesso di uccidere.»
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La città era grigia, immersa in una pioggia sottile che sembrava non voler finire mai.
Monti guidava da ore, seguendo l’indirizzo trovato negli archivi anagrafici: via dell’Olmo 27, un quartiere tranquillo, lontano dai rumori del centro.
Davanti a una casa bassa, con le imposte scrostate e il giardino invaso dall’erba alta, spense il motore.
Bussò due volte.
Dopo qualche secondo, la porta si aprì, rivelando un uomo sulla sessantina, dal volto stanco ma gentile.
«Cerca qualcuno?»
«Buongiorno. Mi chiamo Monti, vice commissario di polizia. Sto cercando la signora Clara Bonomi.»
L’uomo esitò. «Era mia madre. Ma… è morta tre anni fa.»
Monti abbassò leggermente lo sguardo. «Mi dispiace. In realtà volevo solo farle qualche domanda su una sua parente, Anna Rinaldi. Forse è stata qui, tanti anni fa.»
L’uomo annuì lentamente, lo sguardo si fece più attento.
«Sì… certo che sì. Anna è stata qui. È rimasta con noi quasi un anno.»
Monti si fece più vicino. «Posso chiederle in che periodo?»
«Era l’ottantasei, mi pare. Ricordo bene perché quell’anno mi sono sposato.
Anna era… una ragazza splendida, ma fragile. È rimasta qui tutto il tempo della gravidanza.
Poi, dopo aver partorito, ci disse che sarebbe partita per l’America.
“Un nuovo inizio”, così lo chiamava. Non disse mai chi era il padre del bambino.»
Monti restò immobile, il cuore che accelerava
«Il bambino…» mormorò. «Quindi Anna aveva avuto un figlio.»
L’uomo annuì. «Sì. Uno bambino,
Un giorno, all’improvviso, ha preparato una valigia, ha salutato mia madre e ha detto che ci avrebbe scritto appena sistemata.
Non abbiamo più saputo nulla.
Io ho sempre pensato che si fosse davvero trasferita in America.»
Monti inspirò a fondo.
«Mi dispiace doverle dire questo, ma… Anna non è mai arrivata in America. È morta poco tempo dopo aver lasciato questa casa. Fu trovata uccisa nel suo paese.»
L’uomo sbiancò.
«Dio mio…» sussurrò, appoggiandosi al tavolo accanto. «Non lo sapevo. Mia madre ci rimase male quando non arrivò più alcuna lettera, ma non avremmo mai pensato che fosse… morta.»
Si portò una mano al viso, visibilmente scosso.
Monti restò in silenzio per qualche secondo, poi disse con voce gentile:
«Mi rendo conto che è difficile, ma qualunque cosa possa aiutare a capire che fine abbia fatto Anna potrebbe essere importante. Ricorda se ha lasciato qualcosa qui, oggetti, lettere, appunti…?»
L’uomo si passò una mano tra i capelli, come cercando nei ricordi.
«Aspetti… sì. Ora che ci penso, sì. Anna scriveva spesso. Aveva un quaderno, un diario, lo portava sempre con sé.
Dopo che se ne andò, lo dimenticò nella stanza.
Mia madre lo conservò insieme ad alcune sue cose, pensando di spedirglielo appena avesse avuto un indirizzo.
Poi la mamma è morta e io… beh, non ho mai avuto cuore di buttarlo via. Credo di averlo ancora, in una scatola, tra le sue cose.»
Monti sentì il battito del cuore accelerare.
«Posso vederlo?»
L’uomo annuì e sparì per qualche minuto in una stanza laterale.
Quando tornò, teneva tra le mani una scatola di cartone impolverata.
La aprì con cautela e tirò fuori un piccolo quaderno dalla copertina blu, consumata agli angoli, legato con un nastro scolorito.
«Eccolo. Il diario di Anna.»
Monti lo prese con delicatezza, come se fosse un oggetto sacro.
«Questo potrebbe aiutarci a capire molte cose.»
L’uomo lo guardò negli occhi. «Spero che vi serva. Se può aiutare a darle giustizia, mia madre sarebbe felice, dovunque si trovi.»
Monti annuì, ringraziandolo.
Quando tornò in macchina, il quaderno blu riposava sul sedile accanto.
La pioggia aveva smesso, ma il cielo restava pesante.
Lo aprì lentamente: l’inchiostro sbiadito, la calligrafia ordinata.
Le prime parole gli fecero correre un brivido lungo la schiena:
> “Oggi ho deciso di fidarmi di lui. Dice che il nostro segreto sarà al sicuro. Ma se un giorno
dovesse succedere qualcosa, spero che qualcuno lo scopra.”
Monti chiuse il diario, lo sguardo fisso nel vuoto.
Capì subito che quello non era un semplice quaderno di ricordi.
Era una confessione rimasta sospesa per trent’anni.
Monti varcò la soglia dell’ufficio di Elena, il diario di Anna stretto tra le mani.
Elena alzò lo sguardo, gli occhi illuminati da curiosità e apprensione.
«L’hai trovato?» chiese, trattenendo il respiro.
Monti annuì. «Sì. Questo diario… è molto più di un semplice quaderno. Ci racconta la vita di Anna durante quell’anno che nessuno conosceva.»
Elena si sedette, e Monti aprì delicatamente il quaderno sulla scrivania.
Le prime pagine erano piene di annotazioni quotidiane, pensieri confusi, emozioni crude. Ma fu una nota a colpirli:
> “C’è un uomo… sposato, potente. Dice che presto lascerà tutto per me. Mi promette una vita nuova, lontano da qui. Non posso scrivere il suo nome, ma sento che posso fidarmi.”
Elena strinse le mani, la mente già in fermento.
«Un uomo sposato… e potente», mormorò. «Quindi Anna aveva qualcuno di molto influente dietro le quinte.»
Monti scorse altre pagine, la voce bassa mentre leggeva:
> “Quando ho scoperto di essere incinta, lui mi ha aiutata a trasferirmi da mia zia. Il tempo della gravidanza è passato lì, lontana da occhi indiscreti. Tutto sembrava perfetto… diceva che quando sarei stata pronta, avrebbe lasciato sua moglie e insieme saremmo partiti per l’America. Una nuova vita, per noi e per il bambino.”
Elena inspirò profondamente.
«Ma non fa mai il nome di quest’uomo.»
Monti annuì, gli occhi fissi sul diario.
«Solo una famiglia potente… una delle più influenti del paese, dice. Tutto coincide con quello che sappiamo: Irina, Tommaso Armatis, i soldi…
Qualcuno potrebbe aver ereditato i segreti e continuato a manipolare tutto.»
Elena serrò le labbra.
«Questo significa che il movente non riguarda solo Irina o Anna. È una storia che lega generazioni, potere e inganni.
Se vogliamo risolvere questo delitto, dobbiamo capire chi era quell’uomo potente e che ruolo ha avuto nella vita di entrambe le vittime.»
Monti chiuse il diario, con la consapevolezza che ora il mistero aveva un volto parziale, un’indicazione precisa: un uomo influente, una famiglia potente, e un segreto custodito per trent’anni.
> «E se quell’uomo fosse ancora qui?» sussurrò Elena, lo sguardo fisso verso il lago. «E se la sua ombra stesse ancora decidendo chi deve vivere e chi no?»
Il diario rimaneva aperto sul tavolo, le parole di Anna sospese nel tempo, come un ponte tra passato e presente.
Ogni frase, ogni confidenza, era un indizio verso chi aveva orchestrato l’orrore che aveva portato via due vite, separate da trent’anni, ma legate dallo stesso filo oscuro.
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Elena bussò alla porta dello studio di Giacomo De Vecchi.
«Commissario Ferri…» disse lui, sollevando appena lo sguardo, il volto pallido e contratto.
«Giacomo, devo chiederti ancora una volta cosa hai visto quella notte», iniziò Elena, la voce calma ma ferma. «Ogni dettaglio conta.»
L’uomo si agitò sulla sedia, le mani che tamburellavano nervose sul tavolo.
«Ho già detto tutto…» mormorò, la voce tremante.
«Non sei stato chiaro», replicò Elena, piegandosi leggermente in avanti. «Io so che quella notte hai visto Andrea. Ma voglio sapere se c’è qualcun altro coinvolto. Se stai coprendo il vero assassino… se sei complice. Sai che coprire un omicidio è reato. Galera. Capisci, Giacomo?»
Giacomo sentì il sangue ribollirgli nelle tempie. Il volto si fece rosso, le mani serrate a pugno.
«Ma… ma non avete capito nulla!» urlò, la voce che rimbombava nello studio.
«Io non sto coprendo nessuno! Non c’entro! Non… non…!»
Elena rimase immobile, lo sguardo fisso, senza reagire.
Giacomo si alzò di scatto, la sedia che strisciò sul pavimento.
«Vattene! Vattene via da qui!» gridò, gli occhi lucidi di rabbia e frustrazione. «Non voglio parlare più! Non vi dirò nulla!»
Monti, appoggiato all’angolo della porta, intervenne solo con un gesto calmo, senza parole.
Elena si alzò lentamente.
«Va bene, Giacomo», disse con voce ferma ma pacata. «Ma ricorda: mentire o tacere su un delitto non aiuta nessuno, soprattutto te stesso. Se deciderai di parlare, noi saremo qui.»
Giacomo scosse la testa, ancora in incandescenza, e si ritirò nel suo silenzio, respirando a fatica.
Quando Elena uscì, sentì il peso del sospetto pesare più che mai.
«Non è chiaro», disse a Monti nel corridoio. «Dice di aver visto solo Andrea… ma c’è qualcosa nella sua tensione, nel modo in cui reagisce… mi convince che stia nascondendo qualcosa. O che abbia paura di qualcosa di molto grosso.»
Monti annuì. «Sì… e se fosse stato coinvolto senza volerlo, o avesse paura delle conseguenze?»
Elena guardò verso il lago, immersa nei suoi pensieri.
«Allora dobbiamo scoprire chi è il vero assassino prima che qualcun altro perda la vita o che Giacomo resti intrappolato nel suo stesso silenzio.»
Il vento freddo le sferzò il viso, come un presagio: qualcuno stava ancora tirando i fili dietro la scena di due omicidi, separati da trent’anni, ma
legati dallo stesso filo oscuro.
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La casa di Giacomo era immersa nel silenzio. Solo il ticchettio dell’orologio a muro rompeva l’oscurità.
Fuori, il vento scuoteva i rami degli alberi, portando con sé il fruscio della pioggia notturna.
Giacomo si rigirava nel letto, il sonno rifiutandosi di arrivare. I fantasmi del passato tornavano a trovarlo: Anna, Andrea, le ombre di quella notte che non riusciva a dimenticare.
Ogni ricordo lo trafiggeva come una lama invisibile.
Alla fine, si alzò, il cuore in tumulto.
Si diresse verso il suo studio, le mani tremanti, gli occhi rossi e stanchi.
Sul tavolo, appoggiò la pistola che teneva da tempo come un silenzioso monito di sicurezza.
Ma non era la pistola a interessarlo, bensì un bisogno urgente di mettere nero su bianco ciò che non aveva mai detto.
Prese un foglio e cominciò a scrivere, senza fermarsi: i nomi, i dettagli, le bugie, le omissioni.
Parole di confessione, di rimorso, di paura. Parole che pesavano come macigni, che avrebbero potuto finalmente liberarlo o condannarlo.
Quando terminò, si fermò a leggere ciò che aveva scritto.
Le mani tremavano ancora, la testa gli girava.
Si passò un attimo la pistola tra le dita, poi la puntò verso di sé.
Un brivido percorse la sua schiena, un ultimo istante di esitazione, di lucidità.
Poi un colpo ruppe il silenzio della notte.
Il rumore echeggiò nella casa vuota.
Le ombre si accalcavano negli angoli, come a volerlo abbracciare o a giudicarlo.
Il foglio, ancora aperto sul tavolo, tremava leggermente, le parole di Giacomo sospese nel tempo, testimoni di una verità troppo lunga a venire alla luce.
Fuori, la pioggia continuava a cadere, lavando via il buio della notte senza cancellarne le cicatrici.